Il saggio di Luporini e la svolta leopardiana del ’47 (1980)

Testo rivisto dell’intervento tenuto il 5 maggio 1980 al Gabinetto Vieusseux di Firenze in occasione della ristampa del saggio di Cesare Luporini Leopardi progressivo (Roma, Editori Riuniti, 1980), pubblicato in «La Rassegna della letteratura italiana», n. 3, settembre-dicembre 1980; poi raccolto, dal 1984 (Appendice II), in W. Binni, La nuova poetica leopardiana cit.

IL SAGGIO DI LUPORINI E LA SVOLTA LEOPARDIANA DEL ’47

Questa mattina comprando, come avviene quando si è a Firenze, la «Nazione» ho trovato l’annuncio della nostra presentazione del libro di Luporini con un titolo sintomatico: Leopardi al Vieusseux. Certo è in qualche modo un ritorno di Leopardi in quel Gabinetto Vieusseux che egli da vivo frequentò fra ’27 e ’28 e poi fra ’30 e ’33, anche se il grande ateo e materialista potrebbe ammonirci, a scanso di equivoci, «nessuno, una volta morto, ritorna piú», dato che (come egli dice nella bellissima canzone sepolcrale alla giovane donna cui si rivolge) «il tuo loco è sotterra. / Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno». Ma la sua grande immagine, viva in noi, può ancora tornare al Vieusseux. E mi pare molto significativo che ci torni un’immagine di Leopardi quale venne elaborata fra il 1935 e il 1947 (come poi meglio preciserò; e poi a lungo sviluppata e approfondita) proprio ad opera di due «giovani del secolo ventesimo», quei «giovani del secolo XX» a cui Leopardi si rivolgeva in un pensiero dello Zibaldone del ’27, in cui egli parla della «grande opera della civilizzazione», a cui associare anche gli animali (Per una lettera a un giovane del secolo ventesimo). Mi pare, ripeto, molto significativo che egli ritorni al Vieusseux con un’immagine di lui, tanto rinnovata e storicamente corretta e cosí aderente alla sua realtà; cosí contrastante con quella degli intellettuali del Vieusseux dei suoi tempi, degli intellettuali dell’«Antologia», attaccati nella Palinodia e cosí aperta invece a quei giovani del secolo ventesimo che erano i veri destinatari del suo possente messaggio filosofico-poetico: a quelli che erano allora realmente «giovani» e che ora sono vecchi, ma, senza superbia, sono rimasti tuttora piú «giovani» di giovani precocemente invecchiati anche nei confronti di Leopardi e della sua vera immagine protestataria e combattiva. Quei giovani del secolo ventesimo, che eravamo Luporini ed io ancora nel ’47, l’anno del saggio Leopardi progressivo, vennero portando avanti un’importante battaglia culturale che, a ben vedere, non si limitava allo studio di Leopardi, non era solo un’occasione di studio (per me di critica e storia letteraria, per Luporini di ricerca e storia filosofica), ma si legava a tutta la vasta problematica che ci accomunava addirittura nella militanza politica della sinistra dopo la liberazione, come ci aveva accomunato nella lotta antifascista e nell’iniziale appartenenza a quei gruppi «liberalsocialisti» (da cui poi passammo Luporini nel partito comunista e io in quello socialista) il cui senso piú profondo non era quello di una «terza forza» (come in parte avvenne con la costituzione del partito d’azione in cui confluirono molti «liberalsocialisti»), ma era quello della fondazione di una società radicalmente socialista in cui trovasse vita una nuova libertà, era quello, sempre attuale, della libertà in una società socialista, non quello socialdemocratico del socialismo nella ambigua libertà quale si configura in una società capitalistica. Già allora, nel periodo della lotta antifascista, non a caso Leopardi emergeva dal nostro passato come il nostro maggiore interlocutore attuale, rispondeva a tante nostre esigenze in formazione. Ma quale Leopardi e quale sua immagine? Non certo quella che prevaleva nella cultura e critica crociana e «puristica», quella del poeta idillico e del poeta «puro», il cui idillismo catartico e la cui «purezza» celavano il suo pensiero scomodo, pericoloso, esplosivo, il suo carattere profondamente ribelle, contestatore di ogni sistema idealistico e spiritualistico e falsavano la carica dirompente della sua poesia. Certo non mancavano spunti diversi mal precisabili nell’economia di questo intervento: certi filoni della stessa interpretazione religiosizzante del Vossler, certa parziale valutazione gentiliana del rapporto pensiero-poesia specie nelle Operette morali, certi spunti del Fubini e, proprio nel periodo intorno al ’35, del Momigliano che avvertí in Leopardi un fondo di energia e di eroismo senza riuscire a farlo interamente valere, oltre all’importante studio del Salvatorelli piú avanti citato.

Ma tutto sommato, l’immagine leopardiana prevalente in quegli anni (fra ’35 e ’47) era quella del poeta idillico di origine crociana e addirittura desanctisiana (ma fortemente decurtata in quella crociana), era quella del poeta idillico e «puro», caro alla critica rondistica ed ermetica, di cui importante interprete, qui a Firenze, era il De Robertis, che non mancò anche di spunti diversi, ma che nell’insieme, con tutta la sua geniale finezza di interpretazione stilistica, portava al culmine proprio quell’immagine cosí mistificante rispetto alla vera realtà della poesia e del pensiero di Leopardi. Perché, per parlare in termini chiari e magari brutali, quell’immagine di Leopardi era – involontariamente, ma non senza reali nessi con la storia piú complessa di quel periodo e un po’ di tutto il lungo periodo iniziato sin dalle reazioni dei contemporanei di Leopardi – una reale mistificazione del vero Leopardi, un’esorcizzazione del suo «veleno» ateo, materialistico, protestatario, della sua poesia supremamente inquietante e perciò raddolcita e resa consolatoria e catartica da critici e intellettuali, interpreti del profondo bisogno di consolazione con cui la classe borghese, in ascesa od egemone, celava le sue crisi crescenti.

Quell’immagine idillica e catartica, che sdrammatizzava ed edulcorava il terribile senso aggressivo e «malpensante» di Leopardi, non poteva non essere cara ai detentori del potere e perciò tanto piú inizialmente sconcertante e inaccettabile apparve la nuova interpretazione leopardiana del ’47 a cui Luporini ed io giungemmo in maniera tanto piú sicura, dopo precedenti prove leopardiane piú legate alle nostre situazioni culturali piú giovanili.

Per quel che mi riguarda si tratta di un breve saggio del ’35 Linea e momenti della poesia leopardiana (derivante da una mia tesina universitaria pisana del ’34), molto acerbo e pieno di elementi di idealismo di sinistra e di consonanze idealistico-romantiche, e che tuttavia proponeva uno svolgimento della poesia leopardiana in direzione di un’ultima posizione «eroica» da cui piú tardi prese avvio il mio libro del ’47. Saggio che oltretutto rimase semiclandestino e trovò singolarmente forte ripresa autorevole nell’ultimo paragrafo della storia letteraria del Sapegno proprio nel ’47. Mentre nel ’35, come già dicevo, presso Einaudi usciva l’importante libro del Salvatorelli, Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, che rilevava nel Leopardi una posizione politica tutt’altro che reazionaria e «monaldesca» (come il Croce aveva purtroppo indicato nelle presunte e assurde consonanze fra certo fondo e stile delle Operette morali e gli scritti di Monaldo) ed anzi svolta, nell’ultimo periodo e soprattutto nella Ginestra, in senso democratico e addirittura presocialista (o, ahimè!, di precorrimento della «Società delle Nazioni»: ciò che poi gli fu rimproverato da Luporini nella seconda nota nell’appendice del suo saggio del ’47, precisando alcuni punti essenziali circa giovanili presunte ambiguità circa la forma di governo prediletta da Leopardi: non la monarchia assoluta contro quella costituzionale, ma le antiche repubbliche democratiche).

Poi nel ’38 Luporini scriveva e pubblicava nell’«Annuario» del Liceo Scientifico di Livorno un breve e fine saggio, Il pensiero del Leopardi, certamente importante perché comunque in rottura con le posizioni idealistiche (al cui fondo ero rimasto legato nel mio saggio del ’35, anche se – per lumeggiar meglio il nostro difficile movimento, entro la cultura fra ’30 e ’40 – aggiungerò che, nella scuola pisana in cui io allora operavo, ero stato attratto, piú che dal crocianesimo, da certo gentilianesimo di sinistra, dalle lezioni di Ugo Spirito anche con il suo corporativismo sfiorante il collettivismo) e perché comportava comunque un esame impegnativo del pensiero leopardiano (trascurato a scapito di una poesia «pura» nella critica leopardiana del tempo, malgrado le posizioni di Gentile e spunti del Fubini per le Operette morali). Ma (e lo dico soprattutto per rilevare le differenze che correvano fra noi, pur accomunati nella militanza «liberalsocialista», poi attenuate nello sviluppo che ci portò ai saggi del ’47) tale interpretazione risentiva fortemente di istanze pascaliane-esistenzialistiche che portavano (con suggerimenti del tempo, forse anche del comune amico Capitini, con la sua religiosità antidogmatica, e magari persino delle «ricerche di Dio» da prospettive rivoluzionarie: i «cercatori di Dio» presenti – persino Lunačarskij vi partecipò – nel comunismo russo) ad una conclusione di religiosità negativa, di ateismo che rappresentava «una delle piú alte testimonianze di Dio che siano uscite dallo spirito umano».

Sicché io nel mio libro del ’47 (ignorando la decisiva diversità di impostazione del nuovo saggio di Luporini) potevo citare la conclusione del suo saggio del ’38 prendendone decisamente le distanze in una interpretazione atea e materialistica di Leopardi che proprio nel nuovo saggio luporiniano trovava la sua particolareggiata e decisa delineazione.

Ma, dopo questa breve preistoria, veniamo appunto al 1947, quando (a distanza di un mese e presso lo stesso editore Sansoni) uscirono, nell’estate, il mio libro La nuova poetica leopardiana e il saggio di Luporini Leopardi progressivo nel volume miscellaneo Filosofi vecchi e nuovi. Quei due saggi, coevi e quindi reciprocamente sconosciuti, segnavano, obiettivamente, quella che l’opinio communis ha indicato come la «svolta del ’47» nel problema leopardiano.

Perché (senza voler forzare le cose pro domo nostra) in tale svolta non si possono riconoscere altre vere presenze, non si può affermare (come fa un recensore della ristampa luporiniana sull’«Unità», il Barzanti) che le bibliografie «irrigidite e scheletriche» hanno fatto perdere la memoria e il valore di altri saggi rinnovatori di quel periodo, come sarebbe il caso di un articolo di Franco Fortini sul «Politecnico» del ’46 che io ricordavo, ma che ho riletto, dopo quell’indicazione, trovandolo sí interessante (entro la prospettiva fortiniana) nei confronti della rifiutata immagine ermetica del poeta «puro» (Luporini parlerà senz’altro energicamente della poesia «impura» di Leopardi), ma svolto in direzione di un Leopardi dell’«arcana felicità» (le lacrime del pastore errante come ultime lacrime della società e dunque Leopardi portatore di una società senza lacrime, riflesso anche delle speranze e della volontà di quegli anni «illusi») molto diverso dal Leopardi eroico e pessimistico-attivo, contestatore della cultura del suo tempo, che emergeva, con tutte le loro differenze, dai nostri saggi e dalla direzione interpretativa che ne nasceva e che poteva cosí a lungo angolare, tanto piú storicamente centrata, la nuova problematica leopardiana (e attraverso di essa tutta una direzione persino etico-politica e culturale fortemente imperniata sulla lezione leopardiana).

Ed è giusto ciò che dice Luporini nella lucida premessa della ristampa attuale del suo saggio: che i nostri due saggi si collocavano «salve tutte le differenze in un medesimo impegno di rinnovamento il che è apparso sempre piú chiaro col volger degli anni» e che «non pochi considerano quella data, il 1947, l’inizio di una mutazione seria, di una “svolta” negli studi leopardiani, e, piú in generale, nel modo di accostarsi al Leopardi». Né d’altra parte, può aggiungersi, quei saggi possono limitarsi solo a una questione letteraria (anche se io puntavo naturalmente di piú sull’esito poetico e Luporini piú sul pensiero del moralista Leopardi), ma implicavano tutta un’importante battaglia culturale e politico-culturale che ci accomunava (come dice anche Luporini nella sua premessa) anche negli esiti della lotta antifascista, nelle speranze ardenti del ’45 di tutto ciò che sembrava aprirsi e che presto venne ad oscurarsi e a complicarsi con nuovi e gravi problemi. In quella situazione di speranze e delusioni (che forse io piú avvertii alla luce della mia esperienza nella crisi del partito socialista e dello stesso mio persistente sottofondo «liberalsocialista» nel senso che quella parola aveva e che ho prima spiegato) tanto piú Leopardi ci si presentava come un punto eccezionale di riferimento, come il massimo interlocutore dei nostri problemi, l’alto esempio di una lucida posizione di pessimismo e di lotta, il supremo contestatore-poeta (entro la cultura moderna degli ultimi secoli fino a noi) delle ideologie che avevano sorretto la classe borghese in ascesa e tuttora la sorreggevano nella sua accanita resistenza alle nuove forze veramente progressive e democratiche.

Tutto ciò allora risultava ancor piú chiaramente nel saggio di Luporini che piú direttamente riguardava il «moralista», il pensatore attivo, lo svolgimento intero del suo pensiero culminante in un materialismo ateo, aggressivo e democratico anche in senso politico. E non starò qui ad esplicitare tutta la ricchezza di quel saggio (lo farà l’amico Landucci) che, anche alla rilettura, mostra oltretutto una singolare densità e un coerente eccezionale vigore scrittorio.

La fertilità della svolta del ’47 venne esplicitata poi da un ingente svolgimento di studi e contributi sul nuovo e «diverso» Leopardi che non posso qui minutamente ricordare, ma fra i quali presero particolare rilievo i saggi cosí importanti di Sebastiano Timpanaro, tanto che il binomio del ’47 si venne cambiando in un trinomio affermato anche dalla communis opinio come un fronte articolato, ma sostanzialmente collegato in una vera e propria battaglia critico-culturale per l’affermazione di una presenza di Leopardi storicamente e filologicamente corretta e valida nella nostra cultura contemporanea.

Di fronte a questa salda angolatura interpretativa si può notare però da qualche anno l’affiorare di impostazioni che se ne discostano o che variamente la mettono in discussione. Che ciò avvenga nella cultura di altre origini e prospettive ideologiche (come il ritorno ammodernato a interpretazioni di tipo spiritualistico e religioso) non stupisce e non allarma. Allarma invece e appare improducente e spesso veramente inaccettabile il fatto che ciò avvenga nell’area della cultura di sinistra, anche se occorrerà dire che da tempo tale cultura (e non solo la cultura) è attraversata da elementi ideologici di tutt’altra origine (addirittura di destra) o che essa viceversa riprende, in nuovi modi, schemi rigidamente sociologici addirittura di tipo plekanoviano e da seconda internazionale. Sicché anche il problema di Leopardi ne è una riprova, se Leopardi in anni recenti, dal ’74 circa in poi, è stato potuto considerare come un reazionario (come è avvenuto in un saggio di Norbert Jonard avallato dal Petronio in una miscellanea dal titolo Il caso Leopardi), se Leopardi è stato paragonato a Manzoni a tutto vantaggio del secondo, intellettuale organico della classe borghese in ascesa, e a tutto svantaggio del primo, inutile nella crisi risorgimentale con il suo pessimismo (con una polemica aperta dal compianto Carlo Salinari proprio su «Critica marxista»), se – su di una linea che ha investito gli intellettuali disorganici o presunti tali rispetto alle classi e al potere egemone: Bruno e Campanella rispetto ai gesuiti nel Seicento come è avvenuto nel noto capitolo di Asor Rosa della storia letteraria Laterza – piú recentemente il mio vecchio e caro allievo pisano Umberto Carpi (fortemente attaccato da Timpanaro, il piú tempestivo nell’opposizione a tali linee emergenti) ha avanzato e svolto una interpretazione di Leopardi come di un intellettuale che, di fronte al tempo e agli intellettuali dell’«Antologia» collaboranti con le esigenze «progressive» della classe borghese in ascesa, rimarrebbe un arretrato e sradicato, incapace di produrre storia, non comprendendo il moto di questa, il suo processo, i problemi degli intellettuali progressivi che Leopardi attacca, attaccando insieme la politica tout court e i rapporti fra politica e cultura. Laddove a me (a parte la perdita dello stesso spessore storico della poesia leopardiana, dell’intellettuale-poeta Leopardi) pare (alla luce delle posizioni mie, di Timpanaro, di altri nostri compagni di lavoro, di Luporini soprattutto) che la stessa nozione gramsciana dell’intellettuale organico venga in tal modo depauperata e falsata, che Leopardi, «disorganico» rispetto alle tendenze prevalenti nella sua epoca e collegate con le istanze interessate della classe borghese in ascesa – che egli aggrediva nel loro spiritualismo, provvidenzialismo, perfettibilismo, nell’esaltazione del progresso tecnico come panacea di per sé sola di tutti i mali della condizione umana e naturale –, sia (per giuocare su questa parola assai discutibile) piú profondamente organico ai moti profondi della storia, ad un «progresso» piú profondo e superiore al moto della civiltà borghese di cui egli aggrediva gli inizi e di cui noi viviamo i tardi esiti disumanizzanti. E in tal senso mi pare che la stessa ristampa del saggio di Luporini sia quanto mai opportuna proprio con lo stesso titolo invariato, non solo per fedeltà bibliografica, ma perché Leopardi alla lunga risulta «progressivo» nella storia del suo tempo e nel futuro che tuttora ci coinvolge (non certo nel senso delle «magnifiche sorti e progressive» che egli assaliva sarcasticamente ed esplicitamente nella Ginestra) proprio perché egli è il supremo contestatore di ogni ideologia spiritualistica, idealistica, reazionaria e moderata, di ogni prospettiva legata alla classe borghese in ascesa, e può persino intervenire, con la sua lezione e con il suo messaggio, nella stessa prospettiva rivoluzionaria e marxista criticandone ogni tentazione trionfalistica e perfettibilistica, ogni illusione di società perfetta e felice, riproponendone i limiti della caducità e imperfezione della sorte umana e cosmica, della sua continua esposizione alla malattia, alla senilità, alla morte, al risorgere di istinti e di contraddizioni mai vinti per sempre e definitivamente. E cosí facendo non conduce all’inerzia, ma viceversa ad una lotta incessante e doverosa.

Si ricordi poi come il saggio di Luporini lucidamente distingueva in Leopardi (uno dei punti-chiave della sua interpretazione) la condanna e l’irrisione del mito della «perfettibilità» dalla ferma accettazione di un «progresso» fondato sulla ragione (prima attaccata nel suo senso storico di raison decurtante e matematica, poi vigorosamente affermata nel contesto dello sviluppo materialistico e antiprovvidenzialistico come potere demistificante, demitizzante e sol cosí costruttivo): e come negare a Leopardi tale nozione di progresso quando si pensi alla Ginestra e al «secol superbo e sciocco / che il calle insino allora / del risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami», e, già nei Paralipomeni, ai granchi-reazionari «grandi inimici dell’andare innanzi»? Dunque «Leopardi progressivo» non è un paradosso, ma una verità ben testualmente confermabile. E aggiungerei adesso che tale definizione è valida anche in senso politico, anche se io poi ho adoperato il termine di «prepolitico» non per timida cautela, ma per indicare il carattere della «politica» leopardiana rifondatrice di una nuova «politica» diversa da quella tradizionale e a lui contemporanea, errata nei suoi presupposti e nella sua prassi. Ed anche se alla prima lettura in quegli anni lontani, fra le reazioni suscitate dal saggio di Luporini (e dal mio, violentemente attaccato dal De Robertis), non mancò una mia recensione del 1948 sul «Nuovo Corriere» (il quotidiano della sinistra qui a Firenze: ne rimpiango ancora la scomparsa nel ’56!) che non tanto rimproverava a Luporini (come avvenne da altre parti e pur in organi della sinistra: Sapegno su «Rinascita») la non considerazione del «poeta» a vantaggio del pensatore e del moralista (non mancavano invece nel saggio di Luporini anche importanti spunti diretti sulla poetica e poesia: basti ricordare il rilievo dato ad un pensiero dello Zibaldone secondo cui «il sentimento, se non è fondato sulla persuasione è nullo», ben in accordo con la direzione di una poesia cosí strettamente fondata sul pensiero e appunto «sentimentale» solo se imperniata saldamente sulla «persuasione»: e cos’è un poeta, un vero e grande poeta, se si prescinde dalla sua Weltanschauung, dal nutrimento della sua prospettiva ideologica e culturale?) quanto un’opposizione o un avvertimento da parte mia, entro le posizioni della sinistra in quegli anni, circa la possibile forzatura del significato storico-attuale del Leopardi e del suo messaggio in un’attualizzazione che mi sembrava particolarmente, allora, troppo risolta in un aggancio con una forma di socialismo troppo determinata e in cui io pensavo di intravvedere l’incombere di una realizzazione, le cui forme precise io combattevo, o di fronte a cui mi sembrava che la lezione di Leopardi portasse piú avanti e al di là di ogni possibile chiusura e ortodossia di tipo stalinista.

Sicché io, dubitando della formula di origine desanctisiana (se il Leopardi fosse vissuto fino al ’48 ecc. ecc.) e pur accettando l’ipotesi suggestiva e giusta dell’«onda piú lunga» di cui parlava Luporini, ribattevo: «Sí, un’onda piú lunga, ma piú lunga di qualsiasi onda che approdi ad una civiltà che si consideri ottimisticamente definitiva nella sua sostanziale struttura, e contro cui Leopardi sarebbe ricorso al suo rigore assoluto di “malpensante” alla sua persuasione antimitica, che lungi da ogni scetticismo di conservatore, la rendeva piú progressiva di ogni limitata rivoluzione».

La mia osservazione non era priva di ragioni (e non manca tuttora di una sua giustezza generale) ma (devo ammetterlo chiaramente) era anche un certo «processo alle intenzioni» che attualmente e nel lungo processo di sviluppo delle posizioni della sinistra mantiene il suo peso, piú che nei confronti di Luporini, nei confronti di posizioni in realtà resistenti variamente solo in chi accetti interamente la definitività di certo «socialismo reale» e non senta invece (come certo è adesso anche il caso di Luporini) la costante difficoltà di una nuova società e la necessità (implicita nell’orientamento leopardiano, in ciò che Leopardi ci dice coinvolgendoci sempre piú nella sua complessa problematica) di una costante critica ad ogni costruzione che si consideri definitiva e «miticamente» perfetta e felice. Di fronte a cui il pessimismo energico leopardiano porta ad avvertire il limite duro delle condizioni naturali, della sorte biologica dell’uomo, il ricavo di quel materialismo su cui Luporini aveva portato precisazioni essenziali circa la sua genesi e il suo sviluppo (la distinzione fra «vita» ed «esistenza», l’identificazione della natura che dà l’esistenza e non la vita, il rischio del nichilismo esistenzialistico, l’approdo ad un materialismo saldo ed articolato su cui si sviluppa, dal ’23, il lungo cammino leopardiano fino al messaggio sconvolgente della Ginestra) e al consolidamento del quale, ripeto, aveva poi portato contributi di gran valore Sebastiano Timpanaro con interne discussioni (con il vario peso dato ad un’esplicita posizione leopardiana progressiva politica e «prepolitica» o implicitamente democratica nel suo valore conoscitivo materialistico) che qui non è possibile convenientemente riassumere e per le quali io non posso non rimandare al mio libro del ’73 La protesta di Leopardi e alle sue note di discussione (per lo piú in accresciuta consonanza con la delineazione luporiniana e nella prospettiva della mia piú accentuata nozione della poesia-pensiero e del valore «moltiplicatore» della commutazione poetica), nonché al mio discorso a Napoli sul Leopardi degli anni conclusivi della sua vita ed opera,[1]da cui risulta anche una piú chiara discussione con altri compagni di lavoro e maggior convergenza con il saggio di Luporini già evidente nel mio saggio citato del ’73. Saggio, quello di Luporini, che mantiene tutt’ora un’intera forza di direzione interpretativa e non solo un valore nella storia del problema leopardiano, tanto piú che la breve ma densa premessa di cui Luporini ha munito la ristampa presente, elimina, con una aperta e decisa autocritica, alcuni punti di dissenso: il riconoscimento della grandezza di A se stesso (che implica, a ben vedere, una maggiore duttilità circa l’affermazione del vitalismo leopardiano e la sua necessità per la genesi della poesia), il riconoscimento dell’importanza delle Operette morali (malgrado una certa loro «relativa cristallizzazione» e malgrado la ribadita certezza dell’essenzialità dello Zibaldone come «asse principale della ricostruzione del pensiero leopardiano») troppo interamente accantonate nella prospettiva del ’47, l’attenuazione o lo scarto del confronto con il «pensiero dialettico» e della sua indicazione come limite di Leopardi.

Cosí, come risulta anche da queste correzioni della premessa, il saggio luporiniano mantiene la sua funzione essenziale di esemplare ricostruzione storica e orientata del pensiero leopardiano, che, ripeto, con tale interpretazione (e con la sua convergenza con altre posizioni congeniali usufruite del resto nelle correzioni della premessa) attribuisce correttamente al Leopardi il valore di un eccezionale punto di riferimento sempre piú importante entro le stesse difficoltà della cultura della sinistra, le cui sorti soprattutto stanno a cuore a chi parla e ai suoi compagni di lavoro, e a cui Leopardi offre l’esempio di un intellettuale-poeta impegnato, proprio per il suo estremo e consequenziario pessimismo, in un vigoroso invito alla lotta per una società diversa e totalmente nuova rispetto a quella in cui egli visse e in cui noi viviamo.

E non è un caso se proprio Luporini, in una recente intervista su Sartre in occasione della sua morte (pubblicata su «Rinascita»), parlando dell’ultima famosa intervista sartriana sul «Nouvel Observateur», rilevava nel rilancio della «fraternità» da parte del pensatore francese (accompagnato dall’ingenua parola «speranza», che è parola del tutto scomparsa nell’estremo appello leopardiano) una certa vicinanza a Leopardi, ma con la differenza che in questi l’invito alla fraternità e alla lotta per la sua realizzazione è ancorato al suo estremo pessimismo.

Ecco: per noi Leopardi è un grandissimo poeta e intellettuale e parla cosí urgentemente al nostro tempo e agli uomini predisposti ad ascoltarlo, proprio perché il suo invito alla lotta per una società fraterna è legato al suo stesso estremo pessimismo circa le realtà umana, terrestre, cosmica, che esclude ogni scappatoia mistica, ogni illusione e ogni mito ottimistico (fino a superare il gramsciano «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà») e, cosí, estremo com’è, comanda un cambiamento radicale di ogni comportamento personale ed interpersonale, un ribaltamento dei fondamenti della prassi sociale: al posto dei miti e delle illusioni la verità («nulla al ver detraendo»), la verità intera (che solo cosí diventa veramente rivoluzionaria) dovuta al «vulgo» (cui si danno invece fedi e miti) che può fondare una nuova società volta al «ben comune», in lotta col «comune nemico» (la natura) in una lotta incessante perché entro i limiti ferrei della malattia, della morte, delle catastrofi naturali e perché gli istinti egoisti degli uomini sono sempre pronti a risorgere. Certo la stessa Ginestra non è, per fortuna, un trattato prosastico tutto minutamente decifrabile, ma certi nuclei di fondo sono ben recepibili entro la vertiginosa moltiplicazione espressiva di quella grandissima poesia.

A questa valorizzazione di Leopardi, cosí a lungo mistificato e invece cosí eccezionalmente vivo entro i problemi drammatici del nostro tempo, il saggio di Luporini ha portato un fondamentale contributo, che in un certo senso supera il problema critico e storico, e immette Leopardi nella vita stessa della nostra cultura e della nostra stessa lotta sociale e politica.


11 Pubblicato in «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1980, e poi ripubblicato nella quinta edizione della Protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze 1982.